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I cento pozzi di Salaga di Ayesha Haruna Attah

Ayesha Haruna Attah, I cento pozzi di Salaga, traduzione Monica Pareschi, Marcos y Marcos, Milano 2019, pp. 300

Ayesha Harruna Attah nasce ad Accra (Ghana) nel 1983, in una famiglia di giornalisti. A tredici anni scopre Toni Morrison e ne resta entusiasta. Ha studiato in Ghana e negli Usa, biochimica alla Columbia University e scrittura creativa alla New York University, per poi tornare in Africa e cominciare a scrivere. Vincitrice del premio Africa Centre Artists in Residency per il 2015 e Sacatar Fellow, le è stata assegnata la borsa di studio 2016 Miles Morland Foundation per la non-fiction. E’ tornata a vivere in Senegal, prima nella capitale Dakar poi in un villaggio.

E’ autrice di cinque romanzi: Harmattan Rain, nominato per il Commonwealth Writers’ Prize 2010; Saturday’s Shadows, The Hundred Wells of Salaga, The Deep Blue Between (tradotti in italiano come I cento pozzi di Salaga e Il grande azzurro) e Zainab Takes New York.

Al centro della storia la città di Salaga e le due protagoniste, Aminah, e Wurche, le cui vite finiscono per intrecciarsi e le cui voci narranti si alternano nel racconto. A Salaga un tempo centro importante per i commerci, si potevano incontrare i mossi, gli yoruba, gli hausa, i dioula, i dagomba…, e i suoi cento pozzi servivano a lavare gli schiavi prima di esporli al mercato.

Wurche, figlia di re, principessa mascolina dal carattere ribelle, vorrebbe avere un ruolo di governo come i fratelli maschi, anzi desidererebbe essere a capo del suo popolo, invece sarà costretta a un matrimonio dettato dalla ragion di stato. Suo padre Etuto, re dei Gonja, ha bisogno di allearsi con i Dagbon e il matrimonio serve a suggellare l’alleanza. E dire che «le principesse gonja (…) avevano la possibilità di scegliersi i compagni, anche se gli uomini in questione erano già sposati. E adesso proprio a lei veniva negato questo privilegio.» (p. 63) E che dire di Aminah di Zazzau che aveva rifiutato di sposarsi in modo che nessuno potesse usurparle il trono? Nella storia del Ghana – dirà Ayesha Harruna Attah in un’intervista – ci sono state regine e donne potenti, ma le loro storie sono state cancellate o sepolte, come d’altronde è avvenuto in altre parti del mondo.

Aminah figlia di un calzolaio di Botu, un villaggio di poche centinaia di persone, cucinava le pietanze da vendere alle carovane che passavano di là. Sognava di poter fabbricare scarpe come suo padre, anche se a Botu quello non era un mestiere per donne, fantasticava sui luoghi lontani che suo padre le descriveva al ritorno dai suoi viaggi, finché un giorno viene catturata come tutti gli abitanti del villaggio e venduta come schiava.

Wurche e Aminah, due donne che cercano uno spazio per se stesse in un mondo patriarcale. Il destino le fa incontrare a Salaga e insieme affronteranno quel periodo contrassegnato da lotte intestine fra i capi delle varie popolazioni, che cedono alla corruzione occidentale, alleandosi con gli europei per fare del commercio di esseri umani una fonte non solo di guadagno ma anche di potere.

«Prima del vostro arrivo – dice Wurche a un europeo – gli schiavi erano persone catturate in guerra o che le famiglie non avevano la possibilità di mantenere. Molti di loro si sposavano, entravano persino a far parte delle famiglie reali. Da quando siete arrivati voi, è diventata un’attività commerciale. Rapimenti, razzie. E questo per soddisfare i vostri bisogni. E adesso

venite a dirci che gli europei vogliono abolire la schiavitù. In altre parole, i cattivi siamo noi».

«Forse hai ragione, - risponde l’europeo – è un comportamento ipocrita». (p. 266-7)

Siamo nel periodo precoloniale di fine Ottocento, un periodo di forti tensioni politiche fra i vari regni della regione, una regione dalla complessa realtà umana, sociale e politica.

Al lettore vengono mostrati gli aspetti di vita quotidiana, le differenze di tipo socio-economico, le gerarchie nelle relazioni familiari e di potere. Inoltre il lettore scopre che la tratta degli schiavi era una pratica consolidata anche presso le classi dominanti delle tante popolazioni africane di quella regione.

In generale il libro è piaciuto, ritenuto interessante per lo sfondo storico, per i molti spunti etnologici, per i diversi temi: la schiavitù, le lotte intestine che favoriscono la colonizzazione degli europei, il ruolo della donna, il patriarcato, il tema del potere. C’è chi ha apprezzato la scrittura scorrevole ed efficace, non banale, chi ha visto nei due personaggi femminili un’anticipazione dell’emancipazione della donna nonostante la situazione estremamente patriarcale.

Non sono mancate le critiche: non è un capolavoro; il personaggio di Wurche risulta troppo costruito, poco probabile; un libro che non ha entusiasmato anche se interessante dal punto di vista storico, visto che in occidente ignoriamo molto dell’Africa e dei tanti popoli che l’hanno abitata e che la abitano.

All’origine di questo romanzo di Ayesha Harruna Attah c’è la scoperta casuale dell’esistenza di una trisavola fatta schiava, seguita da un’accurata ricerca storica durata anni, dalla consapevolezza della responsabilità dello scrittore africano di far conoscere all’occidente la storia del continente e la verità su di esso. «Ora io scrivo – dichiara Ayesha – per cercare chi sono e per portare alla luce le storie dei miei antenati».

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