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La mia casa è dove sono di Igiaba Scego

GdL virtuale del 20 marzo 2020


Interessante la discussione grazie ai diversi interventi e commenti, in gran parte positivi, mentre per alcuni il testo è risultato deludente, un po’ troppo superficiale, qualcosa di déjà vu.
C’è chi ha tratto dal testo informazioni sul colonialismo italiano nel Corno d’Africa, che ignorava, perché a scuola ai suoi tempi nessuno gliene aveva parlato, e sembra che ancora adesso non si studi. Igiaba appartiene a due città: Roma, dove è nata, e Mogadiscio la città dei genitori in cui anche lei ha soggiornato sia pure per brevi periodi; appartiene a due culture, e non sempre è facile destreggiarsi, per cui si muove come un equilibrista tra le due. Ognuno di noi ha delle mappe per orientarsi nel mondo, Igiaba ha le sue che sono diverse, perché vede le cose con occhi diversi, ma raccontandoci la sua storia e quella della sua famiglia permette anche a noi di aggiornare la nostra mappa.
Un altro intervento ha trovato interessanti gli argomenti, interessante l’intreccio tra autobiografia, storia e attualità sociopolitica. Partendo da luoghi di Roma che l’hanno vista crescere l’autrice si è lasciata portare dai ricordi della sua vita, dall’eredità culturale della Somalia, dalla storia della dominazione coloniale e ha steso una trama di fili che s’intrecciano, s’interrompono per ricomparire qua e là in successivi approfondimenti. Ad esempio Igiaba parla dell’organo di Santa Maria sopra Minerva, cui sono state rubate le canne e che poi è stato incendiato, come di un organo “privato con violenza della sua linfa sonora”, e la sua mente va alla “memoria di noi donne” bruciata e costretta a tacere. Usa il “noi” coinvolgendo assieme le somale, noi lettrici e le donne della sua vita. La “linfa” rubata è anche la mutilazione dell’infibulazione della madre bambina, che si sottomette “con una tremarella da fare tenerezza” alla violenta tradizione; una tradizione - scrive Igiaba - che non ha fondamento religioso, è solo “una stortura della storia”. E rivendica la scelta coraggiosa della madre di sottrarre la figlia a questa tradizione. Una bella figura quella di mamma Kadija, bambina nomade inserita in una società pastorale della savana, non priva di pericoli e di durezza, ma confortata dalle storie di iene o di zebre che di notte intorno al fuoco la comunità del villaggio si raccontava (come i nostri contadini e montanari che si raccontavano storie di lupi e di banditi nelle stalle della pianura padana o delle nostre Alpi); costretta in seguito a trasferirsi in città e poi in esilio in un altro paese, costretta a ridisegnare la sua mappa. Una scrittura sciolta e apparentemente semplice - quella di Igiaba - arricchita di immagini letterarie e di un impasto linguistico italo-somalo; una scrittura che l’autrice si è conquistata con un lavoro tenace superando le difficoltà di immigrata di seconda generazione.
La figura di mamma Kadija ritorna in altri interventi: quando scopre che sua figlia a scuola per difendersi dalle cattiverie dei compagni che la paragonano a un gorilla, ha finito per isolarsi e chiudersi nel mutismo, cerca di farle capire che alle loro spalle c’è una storia, una tradizione e nello stesso tempo chiede un aiuto alla maestra la quale, facendo leva sulla curiosità di Igiaba le apre l’armadio pieno di storie in cambio delle sue parole. L’importanza delle storie ritorna in tutto il libro e alla fine l’affermazione che lei può definirsi solo attraverso la sua storia, “io sono la mia storia”, funge da conclusione che circolarmente riporta all’inizio e spiega la genesi del libro.
C’è chi ritiene molto bella la pagina sulla solidarietà e vicinanza di tutta la comunità che, in Somalia, per quaranta giorni assiste la madre che ha appena partorito, a confronto con la solitudine delle neo madri che, da noi, restano sole per cui molti sono i casi di depressione post partum.
Infine c’è chi ricorda il momento difficile dell’adolescenza quando Igiaba vorrebbe essere
come le altre ragazze, vorrebbe essere trasparente e invece il colore della pelle non glielo permette. Un periodo di grande sofferenza, che la spinge verso la bulimia, aggravato dalla lontananza della madre, rimasta bloccata in Somalia per lo scoppio della guerra senza poter dare notizie di sé. “A sedici anni la mia differenza mi pesava. La mia pelle, i miei capelli, la mia chiappa decisamente africana erano ostacoli. La mia differenza era un macigno. Avrei pagato per poter essere come gli altri, anonima. Non mi sono sognata mai bianca di pelle, quello mai, ma mi sognavo trasparente.
Qualcosa che gli altri potessero percepire come neutro. Invece ero nera, con i capelli ricci, e di neutro avevo forse le unghie dei piedi. Spiccavo in mezzo a tutto quel bianco.”.


Igiaba Scego è nata a Roma, da una famiglia di origini somale. Dopo la laurea in Letterature Straniere presso La Sapienza di Roma, ha svolto un dottorato di ricerca in Pedagogia all’Università Roma Tre e attualmente si occupa di scrittura, giornalismo e ricerca avente come centro il dialogo tra le culture e la dimensione della transculturalità e della migrazione. Collabora con molte riviste tra cui Internazionale, Il Manifesto, el Ghibli.
Opere: La nomade che amava Alfred Hitchcock, Rhoda, Pecore nere insieme a Gabriela Kuruvilla e Ingy Mubiayi,; Quando nasci è una roulette. Giovani figli di migranti si raccontano insieme a Ingy Mubiyai ; Babilonia, Adua, Roma negata con Rino Bianchi, ha curato l’antologia Future. Il domani narrato dalle voci di oggi, La linea del colore

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