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2020-12-14 Elias Portolu di Grazia Deledda

GRAZIA DELEDDA

Nasce a Nuoro nel 1871 da famiglia agiata. Conduce una vita appartata, dedicata a racconti e romanzi. Ha poca cultura scolastica, è autodidatta. La sua aspirazione è profonda. Ha lottato con la società di Nuoro ne ha fatto esplodere le contraddizioni senza tradirne l’identità. Verso i trenta anni si sposa e va a vivere a Roma dove avrà due figli. Elias Portolu è il suo primo romanzo importante e a seguire ce ne saranno molti altri. Nel 1926 riceve il Nobel per la letteratura. Muore nel 1936 per un tumore al seno, il sarcofago è a Nuoro nella Chiesa della Madonna della Solitudine.

 

Stile: verismo secondo molti, ma soprattutto scavo nella coscienza e nella vita come riscatto. Siamo tutti Canne al vento, caduta e rimorso, desiderio di espiazione.

 

Sardegna rustica, rude, arretrata, ma in realtà arcaica, più che arretrata. Lirismo sognante, ma viene criticata per l’argomento scabroso, l’adulterio.

 

ELIAS PORTOLU

Per noi la Deledda è difficile perché la leggiamo con gli occhi di oggi, emergono abissi nel sentire e partecipazione alla vicenda. Introspezione psicologica, ragazzo fragile, lirismo nei paesaggi.

La storia è banale, un amore tra cognati, parte dal verismo e arriva al folklore. Il momento dello scioglimento del voto alla Cappella è bellissimo. La figura del padre mi ha colpito tantissimo, con il suo grande amore per i suoi colombi e la disgrazia che si abbatte su di lui. Mi ricorda un po’ la Cavalleria Rusticana, parla di una Sardegna lontana in tutti i sensi: Non amo questo genere di letteratura regionale, sono visioni di un’Italia tristissima, nonostante a bellezza del folklore. Non amo neppure il neorealismo, anche se so che sono entrambi punti forti della nostra cultura. Necessario per me contestualizzare, ho fatto fatica a leggere fino in fondo e ho fatto il confronto con Accabadora, che pure è ambientato negli anni ’50 ma non cade nel folklore.

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Mi è piaciuto molto, l’ho trovato molto attuale. Per me il ragazzo non è debole, è un personaggio da tragedia greca, il bene si tramuta in male. Elias Portolu prende coscienza della tragedia ed è l’unico che soffre della situazione. Il prete Porcheddu e lo zio Martinu gli danno consigli per uscire dalla tragedia, ma lui accetta la tragedia e la affronta. Ho apprezzato le immagini della lentezza del gatto che osserva e della pesantezza della fisarmonica errante, il fatto che ogni macchia ha orecchie, le “parole verdi” della madre e le visioni di Elias. Un ultimo punto: quando muore il figlio, non dice nulla a Maddalena, ha ragione il padre, sono tutti uomini di formaggio molle.

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Diffidenza iniziale, mi sentivo lontanissima, poi la lettura mi ha coinvolto. Contestualizzandolo, il romanzo mi ha preso, pensavo ai tormenti di un animo femminile e invece la scrittrice narra di un uomo e dei suoi tormenti interiori. Mi è piaciuta la capacità introspettiva e l’abilità straordinaria nel descrivere la natura, albe liriche di una bellezza struggente.

Elias non è coraggioso né forte, i toni sono di tragedia e ineluttabilità, ma lui è debole e non lotta, fugge senza seguire i consigli, fugge da lei e dal figlio, è una canna al vento. Subisce il destino e non lo controlla, non lotta veramente. La scrittrice approfondisce molto Elias mentre Maddalena resta sullo sfondo, anche se certamente ha sofferto e ha sensi di colpa, e questo stupisce in una donna di allora.

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Di questo romanzo ho apprezzato l’aspetto antropologico e la natura potente, con le sue stagioni e i profumi. Ho visto sentimenti estremi e soprattutto sensi di colpa, la scrittrice è una donna eccezionale, volitiva e indipendente, ma il libro non mi è piaciuto, un feuilleton lontano dai miei gusti. Secondo me Maddalena non aveva sensi di colpa, si è lasciata trascinare dalle cose senza drammi psicologici.

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Non ho apprezzato né la scrittrice né il suo modo di scrivere. Ho avuto la sensazione di una ragazza bene che crede di capire i contadini. Brutalità e rozzezza messe in scena non corrispondono alla mia esperienza con i contadini toscani. Mi pare caricata, eccessiva, così anche nei sentimenti irrinunciabili che si oppongono alle regole comuni, mentre per altri aspetti i personaggi sono assolutamente ligi. Il migliore tra tutti è zio Martinu, cresciuto dalla vita. Amo la Sardegna, ma trovo più realistici i personaggi di Verga, capisco che i sardi non si siano riconosciuti e sia siano offesi.

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Mi è piaciuto molto per due motivi. Per la compenetrazione tra natura e persone, paragonate a uccellini e colombi. Il fluire delle stagioni ha anche riscontro nell’andamento del romanzo. Il clima della natura è legato alle vicende di personaggi. E perché ciò che accade ai personaggi è per me tipicamente da romanzo russo, atti compiuti che lasciano solo senso di colpa e tragedia, non contemplati a inizio romanzo, quando si attendeva la festa. Ho amato zio Martinu, la figura del vecchio saggio, mentre la peccatrice Maddalena resta in disparte, sofferenza silenziosa non messa in luce. Non mi è piaciuto zio Portolu, sbruffone anche se gran lavoratore. Evidenziata l’importanza del lavoro del contadino e quello del pastore, personaggi abbronzati, mentre Elias è di carnagione chiara, contrapposto agli altri anche per via del carcere. La figura della madre è quella tipica di una donna devota, tutta casa e chiesa, relegata nella casa. Infine, Padre Porcheddu, vuol farci sentire la sconfitta della Chiesa ma non della spiritualità, lui vive di amore canzoni e poesia ma poi porta Elias al sacerdozio.

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Ho apprezzato molto questo romanzo, mi ha fatto molto riflettere. Secondo me il personaggio non è né forte né debole, ma ha una sensibilità morbosa, tutto diventa colpa ed espiazione, come se lui non potesse combattere contro un destino avverso. Non si esplora la sensibilità di Maddalena, ma di Elias che lascia ce la tragedia si compia. Colpiscono la figura del padre che ama i suoi colombi, e quella della madre, che ama i suoi figli e prega. Elias lascia il segno, nulla da aggiungere sulla descrizione che Deledda fa della natura, di cui si è già parlato.

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Questo romanzo mi ha lasciato perplessa, perché c’è sempre rassegnazione da parte di Elias. Mi ha dato un senso di amarezza per il lasciar succedere le cose. Maddalena si sposa e lui che sta per farsi prete solo alla fine sembra potersi dedicare a Dio e anche agli altri, come se solo alla fine fosse arrivato ad una vera vocazione e non fosse più in fuga da Maddalena.

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Elias crolla miseramente, Maddalena riconosce invece l’amore. Questo giovane non riesce a realizzare nulla di quello che gli viene consigliato. Quando Elias si avvicina alla ragazza durante il Carnevale lo fa come tradimento del fratello. Elias non accetta nessuna delle proposte anche dopo la morte di Paolo. In entrambe le situazioni in cui fanno l’amore, il tono è drammatico. La prima volta ricorda un po’ il manzoniano “la sventurata rispose”, la seconda, nella tanca, Deledda dice che i “i due si persero”. Coerenza ed accettazione di Maddalena, che resta sottotraccia. La madre, custode del focolare, religiosa, Elias è l’unico che la segue.

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Per dare un giudizio sull'Elias P. (che in se mi pare prolisso e come analisi psicologica inverosimile, anacronistico), lo sguardo corre ad altri autori alla Deledda contemporanei che si sono occupati di realtà regionali (per dire D'Annunzio, Pirandello, Verga) al cospetto paiono giganti in stile e spessore. La nuorese sembra avere uno sguardo da piccolo borghese su una realtà folklorica destinata in prospettiva a svanire. In tema di realtà isolana, con sguardo diacronico, giudico più centrati i testi di Ledda, Niffoi, Michela Murgia ecc. sul filone " letteratura di provincia' (nel senso di spunto rurale o di piccolo borgo, con intrusioni del dialetto) esce oggi "la lettura" (per tutta la settimana €.0,50 col Corriere) con un atlante di vari luoghi e autori in Europa e USA riconducibili a questo fil rouge. Che gli autori chiamano "provinciale", ma io, almeno x il contesto italiano, preferisco chiamare "regionale". Vi è menzionato anche il mio amato K. Haruf e la sua Holt; ma che gap non solo temporale fra lui e la nostra!

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Disobbedire la legge dei padri e seguire la propria strada sarebbe la cosa giusta per Elias - predestinato, ne ha tutti i segni - per evitare la tragedia che però non può - non riesce - a evitare. Un po' come Jack del romanzo Casa di Marilynne Robinson, che però ha la sorella Glory che lo ama, anche lei peccatrice agli occhi del padre. Qui è la debole madre ad amarlo, è lui il suo preferito, ma non lo salva.

Il tormento di Elias è lo stesso di padre Sergej di Tolstoj e del protagonista del film Shame del 2011, dipendenti dall'amore, o meglio dall’attrazione fatale per il sesso, senza il quale si sentono perduti, e per questo preferiscono la solitudine. Idem per il protagonista di La cura Schopenhauer di Yalom, la solitudine come cura.

Elias ha già peccato quando era giovane e forte ed è stato punito per questo con il carcere. Mi hanno domato, dice Elias, ma mi hanno reso debole come una femminuccia. Due figure accanto a lui cercano di dargli – richiesti – buoni consigli. Un omino minuscolo, padre Porcheddu, un prete che ama le donne e la vita e si addormenta ubriaco sotto il cespuglio, e rappresenta in qualche modo l'ipocrisia, il quieto vivere. E c'è un uomo gigante che sia chiama zio Martinu, che si è salvato salvando un altro ed è stato da lui salvato, che parla ad Elias dell'amore fra uomini che sono tutti fratelli, e rappresenta l'unico possibile amore terreno.

Elias vorrebbe salvarsi, ma non può, perché teme di far male ad altri se non si sacrifica, ma danneggiando sé stesso fa male anche ad altrui. Elias si connette e si disconnette da zio Martinu, come da ogni altra cosa. Deve stare lontano da tutto e da tutti, altrimenti nuovamente si attacca/si aggrappa, a qualunque cosa. Totalmente dipendente dalle opinioni altrui, ride se gli altri ridono, ama se l'altro ama, ma da sé, non sa nulla. Elias si fa prete solo per salvare sé stesso, ed è un dramma terribile, perché comunque non ha scelto e si è fatto portare dagli eventi che lui stesso ha contribuito a creare.

In conclusione, testo scomodo, terribile e molto scomodo, forse per questo dimenticato o messo da parte.

 

 

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