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2020-03-30 Nessuno ritorna a Baghdad di Elena Loewenthal


ELENA LOEWENTHAL

Elena Loewenthal nasce a Torino nel 1960 da famiglia ebrea. Laureata, vedova dello scrittore Massimo Foà, è studiosa di cultura ebraica, insegnante di filosofia all’Università, scrittrice e traduttrice.

NESSUNO RITORNA A BAGHDAD (2019)

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Mi è piaciuta molto la scrittura fresca, evocativa, moltissimo l’atmosfera di Baghdad. Faticosi invece i salti temporali e di soggetto. Storia avvincente con molti temi, guerre, relazioni interpersonali e soprattutto maternità. Mi ha colpito il “cinismo” di molti personaggi, l’allontanarsi senza rimorsi. Non vogliono tornare al passato, ma la negazione della nostalgia accentua i ricordi. Mi aspettavo una conclusione circolare, del viaggio più lungo di Norma, chiedo a voi cosa intendesse con questo l’autrice. Trovo una scelta coraggiosa lo scrivere di un tempo e di un luogo così particolari, non vissuti nella realtà dall’autrice. Entrare in quella atmosfera certamente non è facile, forse per questo la psicologia dei personaggi non viene approfondita.

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Il libro mi è piaciuto abbastanza, per diverse ragioni:
         perché è una saga familiare, complessa e intrigante
         perché il medio–oriente è affascinante
         per il paragonare Baghdad ai profumi, al gelsomino
         diaspora in tutto il mondo, i personaggi guardano solo avanti, senza eccessivi rimpianti
         nuova forma di Shoah, ebrei iracheni cacciati nel 1941
         il concetto di viaggio come provvista di ricordi, fame di nostalgia
Non mi è piaciuta invece la ripetitività, nonostante i personaggi interessanti.
Mi hanno colpito molto:
         l’esistenza di una comunità arabo/ebrea dai tempi dell’esilio di Babilonia
         il personaggio di Regina, da single convinta a ebrea ortodossa
         le diverse esperienze di vita.
Nostalgia e sradicamento mi hanno affascinato.

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In risposta a chi chiedeva del viaggio più lungo, è quello dal letto alla sedia a rotelle. Il libro mi né piaciuto molto in seconda lettura, all’inizio gli sbalzi di tempo sono stati faticosi, poi ho potuto inquadrare i personaggi con le loro date di nascita. È stata una scoperta quella degli ebrei iracheni, non li conoscevo, con personalità di gruppo unica, poco integrati, parlano arabo tra loro anche se vivono negli Stati Uniti. Bello l’inizio, la saga familiare. Non trovo vi sia cinismo ma abitudine, è normale per queste persone il sapere di dover andare via. Bellissimo il finale con il profumo del gelsomino dentro.

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Più che cinismo, vedo il nonsenso della vita, il viaggiare come matti, il “l’amore è stato con me tutta la vita, me lo tengo”. Data di nascita, boh, data di morte? Cancellata. Mi è piaciuta molto la festa a casa del nonno, erano tutti lì. Famiglia, religione, umanità. Personaggi volutamente confusi, ridotti a due tratti di matita, non definiti. Grazie per la risposta sul viaggio, non avevo capito.

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Mi piace molto la sensibilità dell’autrice, anche se ho fatto un po’ fatica a ricostruire i salti nel tempo. L’elemento che mi è piaciuto molto è il non giudizio sulle azioni dell’altro. Ad esempio, sulla madre che abbandona i figli, ma solo perché in quella cultura una vedova era come morta, vedi il dialogo tra Norma e Violet, dialoghi che lasciano interdetti razionalmente, ma non vengono giudicati. La cultura ebraica mi piace molto.

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Dell’autrice avevo già letto Attese e diverse traduzioni, mi aspettavo dunque qualcosa di più. Il libro non mi ha coinvolto. Non vedo cinismo, ma spietatezza: bisogna sopravvivere. Se a una vedova giovanissima non è dato vivere, deve trovare la sua strada da sola. Rapporti stranianti, mancano gli affetti. Mi hanno colpito profumi e puzze che uno non può non portare con sé. Mi ha colpito molto questo “andare per vocazione”, un nomadismo dell’anima, un andare che è un disperdersi. Come Israele, che sembra volersi radicare, ma sarà costretto ad andare, questi arabi/ebrei erranti senza confini sono senza legami, se no non ce la fai. Il tema dominante è la nostalgia, che può colpire tutti noi. Ad esempio, il mio Friuli con ricordi non veritieri è fonte di nostalgia costante perché non ci posso tornare. Qualcosa di irraggiungibile. Esigenza profonda, costruzione di un passato, la nostalgia appartiene a tutti coloro che hanno lasciato qualcosa di cui non ti puoi liberare. La dispersione è ben resa, evoca in me l’immagine della pula del grano.

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Alcune note sparse, a partire dalla prolissità, pregio e difetto al tempo stesso, un po’ come le storie di famiglia raccontate dalla nonna.
Sulla difficoltà di orientarsi nel tempo, ho trovato su Intenet un’indicazione utile: mentre i figli invecchiano Norma ringiovanisce.
Il lungo viaggio, a mio avviso, è quello a ritroso lungo la memoria, fino a che Norma/Baghdad si dissolverà in un profumo di gelsomini.
Il libro parla di nostalgia, un’appartenenza che non c’è più. Allora la domanda è:
         Si appartiene a un luogo (ius soli, Baghdad)?
         Si appartiene a una famiglia (ius sanguinis, i figli di Norma)?
         Si appartiene a una cultura (ius culturae, la religione ebraica)?
Infine, il tema del destino, come se il viaggio di ogni vita fosse già segnato, ma fosse possibile conoscerlo solo percorrendolo a ritroso.

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Ho fatto fatica ad arrivare alla fine, non mi è piaciuto, tuttavia ho letto delle critiche su diversi siti che mi hanno fatto venire voglia di rileggerlo. Libro prolisso ma con poco sangue, personaggi con poco corpo. Grande affresco giornalistico, si addentra in descrizioni pregevoli, tuttavia nella storia famigliare non mi sono arrivate né la psicologia né l’anima delle persone. Pregevolissimo inquadramento storico, non valido come romanzo.

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