ISMAIL KADARE’ Freddi fiori d’aprile LONGANESI 2005 (2000 fr.) 15
aprile 2016
Aprile
-mese di rinascita della natura, ma anche simbolo di auspicato cambiamento dopo
l’uscita dell’Albania dal comunismo- si rivela però freddo, plumbeo, piovoso,
avvelenato da sospetti serpeggianti e situazioni inquietanti. Siamo alla fine
del millennio. Dopo la fine del durissimo regime comunista di Hoxha. Ma anche
chi gli succede, lontano dalla gente, quasi invisibile, pare nascondersi dietro
a una visione del potere oscurantista, incomprensibile, di pura difesa della
propria sopravvivenza. Le vecchie sicurezze del regime cadono, torna a
ridestarsi il vecchio kanun, dopo mezzo secolo, basato sulla legge del sangue
-ma non si trova il libro, messo al bando dal comunismo-. Avvengono fatti
inauditi come una rapina in banca, mai verificatisi prima. Insicurezze e
interrogativi scuotono la popolazione. Il periodo di trasformazione, – nel
presente del paese, così come nel passato, ma anche nella storia personale del
protagonista- è anche simboleggiato dalla reiterata presenza del serpente –che
muta e perde la pelle-: nella leggenda della sposa del serpente, nel rifiuto
da parte del protagonista Mark di
indossare la divisa da poliziotto come il padre (“non indosserò quella pelle di
serpente”), nei serpenti trovati in strada da due ragazzini.
Molti
gli episodi riferentesi dalla mitologia greca: Tantalo: il primo a rubare agli
dei l’immortalità; e poi Prometeo, il fuoco. Ma anche Edipo viene riletto come metafora
di quelli che cercano nelle profondità del ventre materno qualcosa, “cercavano
di tornare al delitto originario”. E subito il riferimento alla attualità:
“povero principe pensò Mark. Tra questo branco di assassini tu sei il solo che
si sia davvero pentito”. Colpa e pentimento. Allora come ora.
Non
solo i riferimenti ai miti greci fanno da supporto alla comprensione
dell’attualità della Albania post-comunista e della vita del protagonista -secondo
lo scrittore- ma anche altri eventi (che sinceramente risultano spesso un po’
tirati per i capelli: il disastro del Titanic; l’inviato della Morte che la
annuncia, ma in modo inaudito è respinto “non riconosco la sua autorità”, il
sogno sulla inondazione….
Il
racconto in prima persona è di Mark, pittore che ha la fama di “misantropo, di
spocchioso, di vanesio della capitale, perfino di fallito”. Ha una giovane modella/amante
con cui non sembra rapportarsi se non per il sesso (altro elemento ricorrente) fino a
diventarne geloso per ipotetici tradimenti, immaginati perfino col fratello! Si
comprenderà invece che lei e la famiglia sono angosciati per essere caduti
sotto la legge di sangue dell’antico risorto kanun, secondo il quale il
fratello sarà costretto ad agire. Anche nel rapporto personale, così come nella
vita pubblica e politica del paese, oscurità, incomprensioni, incomunicabilità,
relazioni vacue e inconsistenti fanno da padroni- sembra che accadano per
oscure decisioni esterne cui il singolo o i cittadini non sanno o non possono
opporre una inversione, un cambiamento.
Capitoli
e controcapitoli si succedono in un intreccio tra racconto, mito, metafore, incubo,
sogno, attualità e passato. Passato del quale non sembra ci si possa spogliare e
dato che nella sua essenza ritorna e si reincarna nel presente. L’atmosfera di
fondo è sempre cupa, depressiva, senza vie d’uscita. Sia nella natura che per
gli umani -i mortali o “bimortali”. Lo sguardo è sempre volto all’indietro, al
passato. Davanti a sé aleggia costante una deprimente presenza di morte.
La lettura
mi è risultata faticosa e ad un certo punto noiosa. Pesa quell’atmosfera di
negatività cupa e mortifera che il racconto emana. Pesa un continuo talvolta
stiracchiato alternarsi tra lontano passato e presente, tra storia personale e
storia della Albania. Troppi i rimandi che lo scrittore vuole includere, tanto
da risultare alla fine un amalgama greve e poco chiaro. L’insistenza a
riallacciarsi solo alla cultura greca classica, ignorando tutta la storia sotto
l’impero ottomano – oltre 400 anni-, mi sembra possa essere letto come un
rimosso: probabilmente anche questo contribuisce a quel seno di colpa che serpeggia e affiora in
più momenti nel racconto? Deprimente e respingente la presenza femminile,
ridotta a puro sesso: la vagina equiparata a antro, a caverna (in cui sono
forse nascosti i libri del kanun) “i cui fitti cespugli spinosi, evocando il
bordo dei genitali femminili, propagavano tutt’intorno la consapevolezza del
peccato”. Donna=sesso=peccato=colpa!
Pesa
anche il racconto in prima persona, che offre una visione del mondo e delle
cose limitante e soffocante. Ho fatto fatica a cogliere la costruzione logica
del romanzo. E’ stata una pura operazione mentale e razionale a posteriori, di
rielaborazione e riflessione sul senso di quello che avevo letto. Poco il piacere man mano procedevo nella lettura. Mi è
sembrato in fin dei conti un intreccio mal riuscito, sovraccarico e forse
troppo ambizioso.
shara
ponti
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