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giovedì 12 maggio 2016

lettrature altre, Ismail Kadaré



ISMAIL KADARE’ Freddi fiori d’aprile LONGANESI 2005 (2000 fr.)                                                                    15 aprile 2016

Aprile -mese di rinascita della natura, ma anche simbolo di auspicato cambiamento dopo l’uscita dell’Albania dal comunismo- si rivela però freddo, plumbeo, piovoso, avvelenato da sospetti serpeggianti e situazioni inquietanti. Siamo alla fine del millennio. Dopo la fine del durissimo regime comunista di Hoxha. Ma anche chi gli succede, lontano dalla gente, quasi invisibile, pare nascondersi dietro a una visione del potere oscurantista, incomprensibile, di pura difesa della propria sopravvivenza. Le vecchie sicurezze del regime cadono, torna a ridestarsi il vecchio kanun, dopo mezzo secolo, basato sulla legge del sangue -ma non si trova il libro, messo al bando dal comunismo-. Avvengono fatti inauditi come una rapina in banca, mai verificatisi prima. Insicurezze e interrogativi scuotono la popolazione. Il periodo di trasformazione, – nel presente del paese, così come nel passato, ma anche nella storia personale del protagonista- è anche simboleggiato dalla reiterata presenza del serpente –che muta e perde la pelle-: nella leggenda della sposa del serpente, nel rifiuto da  parte del protagonista Mark di indossare la divisa da poliziotto come il padre (“non indosserò quella pelle di serpente”), nei serpenti trovati in strada da due ragazzini.
Molti gli episodi riferentesi dalla mitologia greca: Tantalo: il primo a rubare agli dei l’immortalità; e poi Prometeo, il fuoco. Ma anche Edipo viene riletto come metafora di quelli che cercano nelle profondità del ventre materno qualcosa, “cercavano di tornare al delitto originario”. E subito il riferimento alla attualità: “povero principe pensò Mark. Tra questo branco di assassini tu sei il solo che si sia davvero pentito”. Colpa e pentimento. Allora come ora.
Non solo i riferimenti ai miti greci fanno da supporto alla comprensione dell’attualità della Albania post-comunista e della vita del protagonista -secondo lo scrittore- ma anche altri eventi (che sinceramente risultano spesso un po’ tirati per i capelli: il disastro del Titanic; l’inviato della Morte che la annuncia, ma in modo inaudito è respinto “non riconosco la sua autorità”, il sogno sulla inondazione….

Il racconto in prima persona è di Mark, pittore che ha la fama di “misantropo, di spocchioso, di vanesio della capitale, perfino di fallito”. Ha una giovane modella/amante con cui non sembra rapportarsi se non per  il sesso (altro elemento ricorrente) fino a diventarne geloso per ipotetici tradimenti, immaginati perfino col fratello! Si comprenderà invece che lei e la famiglia sono angosciati per essere caduti sotto la legge di sangue dell’antico risorto kanun, secondo il quale il fratello sarà costretto ad agire. Anche nel rapporto personale, così come nella vita pubblica e politica del paese, oscurità, incomprensioni, incomunicabilità, relazioni vacue e inconsistenti fanno da padroni- sembra che accadano per oscure decisioni esterne cui il singolo o i cittadini non sanno o non possono opporre una inversione, un cambiamento.
Capitoli e controcapitoli si succedono in un intreccio tra racconto, mito, metafore, incubo, sogno, attualità e passato. Passato del quale non sembra ci si possa spogliare e dato che nella sua essenza ritorna e si reincarna nel presente. L’atmosfera di fondo è sempre cupa, depressiva, senza vie d’uscita. Sia nella natura che per gli umani -i mortali o “bimortali”. Lo sguardo è sempre volto all’indietro, al passato. Davanti a sé aleggia costante una deprimente presenza di morte.

La lettura mi è risultata faticosa e ad un certo punto noiosa. Pesa quell’atmosfera di negatività cupa e mortifera che il racconto emana. Pesa un continuo talvolta stiracchiato alternarsi tra lontano passato e presente, tra storia personale e storia della Albania. Troppi i rimandi che lo scrittore vuole includere, tanto da risultare alla fine un amalgama greve e poco chiaro. L’insistenza a riallacciarsi solo alla cultura greca classica, ignorando tutta la storia sotto l’impero ottomano – oltre 400 anni-, mi sembra possa essere letto come un rimosso: probabilmente anche questo contribuisce a  quel seno di colpa che serpeggia e affiora in più momenti nel racconto? Deprimente e respingente la presenza femminile, ridotta a puro sesso: la vagina equiparata a antro, a caverna (in cui sono forse nascosti i libri del kanun) “i cui fitti cespugli spinosi, evocando il bordo dei genitali femminili, propagavano tutt’intorno la consapevolezza del peccato”. Donna=sesso=peccato=colpa!
Pesa anche il racconto in prima persona, che offre una visione del mondo e delle cose limitante e soffocante. Ho fatto fatica a cogliere la costruzione logica del romanzo. E’ stata una pura operazione mentale e razionale a posteriori, di rielaborazione e riflessione sul senso di quello che avevo letto. Poco il  piacere man mano procedevo nella lettura. Mi è sembrato in fin dei conti un intreccio mal riuscito, sovraccarico e forse troppo ambizioso.

shara ponti

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