a cura di Bruno Bechini
Nella compilazione della nota che
segue, per le notizie biografiche la fonte più utilizzata è la lunga
introduzione a La coscienza di Zeno, nell'edizione dall'Oglio del 1964,
assolutamente affidabile grazie alle testimonianze incrociate di due amici di
Svevo (Silvio Benco e Giulio Cesari, suoi colleghi presso il giornale
irredentista triestino Indipendente). Oltre che da qui, diversi giudizi
critici sulle sue opere sono ricavati dalla bella scheda dedicata a Svevo da
Wikipedia.
Ettore
Schmitz, nome autentico di Svevo, nasce nel 1861 da una famiglia ebrea
benestante di origine tedesca, ma da due generazioni residente in Italia, dove
tanto il padre che il nonno avevano sposato donne italiane. Il padre,
commerciante di successo intenzionato a far proseguire nella sua attività i
figli, nel 1874 manda Italo con due suoi fratelli in un rinomato collegio
bavarese a studiare il tedesco e altre materie utili all'attività commerciale.
Svevo si forma così in un ambiente linguistico tedesco che lascerà le sue tracce
nel suo stile letterario, non esente da forzature e solecismi spesso criticati
oltre misura da esponenti del modo letterario italiano. Lui fu invece sempre
orgoglioso della sua biculturalità, in omaggio alla quale assunse appunto lo
pseudonimo Italo Svevo. Nel 1878 egli torna a Trieste, dove completa i suoi
studi commerciali, anche se da tempo più che dalle operazioni della partita
doppia è attratto dalla cultura letteraria, interesse che lo porta a leggere
prima i classici tedeschi (ammirando in particolare Jean Paul) e poi quelli
italiani (su tutti Boccaccio,
Machiavelli e Guicciardini).
D'altra
parte la prospettiva di una sua attività commerciale viene bruscamente
cancellata nel 1880 dal fallimento dell'azienda paterna, che costringe Italo e
i suoi fratelli ad abbandonare la loro condizione agiata e tranquilla per
cercare un impiego qualunque. Svevo lo trova nell'ufficio di corrispondenza di
una banca, dove rimane per 18 anni,
lavorando senza nessuna gratificazione per 8 ore al giorno, con l'indispensabile
aggiunta di attività accessorie, fra le quali fortunatamente prende a
frequentare la redazione del succitato Indipendente, pubblicandovi
recensioni, saggi teatrali e letterari e qualche racconto, tutti firmati con il
primo dei suoi pseudonimi, Ettore Somigli. Dopo questo apprendistato, nel 1892
(anno della morte del padre) assume quello di Italo Svevo in occasione della
pubblicazione del suo primo romanzo, Una vita, che viene però totalmente
ignorato da pubblico e critica. Nello stesso anno ha una relazione con una
popolana, che gli ispirerà poi l'Angiolina di Senilità, il suo secondo
romanzo, uscito nel 1898 e caduto come il primo nel più completo silenzio. Nel
frattempo ha perso anche la madre (nel 1895), intrapreso la collaborazione con
il Piccolo, altro giornale triestino, e, abiurata la religione ebraica,
si è sposato nel 1897 con una cugina, figlia di un facoltoso commerciante
cattolico di vernici sottomarine. Deluso dall'insuccesso letterario, nel 1898
abbandona l'impiego in banca e entra nell'azienda del suocero, impegnandosi con
ottimi risultati in un'attività che lo porta a frequenti viaggi e soggiorni
all'estero, in particolare a Londra. E' per questo che, frequentando nel 1907
un corso d'inglese della Berlitz triestina ha modo di conoscere e di stringere
amicizia con Joyce, al quale fa leggere i suoi due romanzi, ricevendone un
sincero apprezzamento, che non fa però cambiare idea a Svevo. Egli è ormai
completamente assorbito dal suo nuovo importante lavoro (anche se di tanto in
tanto compone qualche pagina teatrale e delle favole), a tal punto da non
riuscire neppure a suonare che eccezionalmente l'amato violino, che si porta
comunque appresso nei suoi numerosi viaggi. Nel 1910 si accosta alla
psicoanalisi e l'anno successivo Svevo conosce Wilhelm Stekel (un allievo del
fondatore della nuova disciplina), che si occupa del rapporto fra inconscio e
poesia; tale esperienza, arricchita in seguito dalla traduzione insieme con un
suo nipote medico de La scienza dei sogni di Sigmund Freud, risulterà
decisiva per il concepimento de La coscienza di Zeno, alla cui stesura
Svevo si impegna a partire dal 1919.
Durante
il conflitto, continuando a vivere nella sua città natale, egli mantiene la
cittadinanza austriaca, ma cerca di rimanere neutrale; dopo il definitivo
passaggio di Trieste all'Italia, prende
invece la cittadinanza Italiana e si impegna nella collaborazione al giornale
triestino La Nazione, fondato dall'amico Giulio Cesari. Solo nel 1923
pubblica La coscienza di Zeno, ancora una volta destinato al più
completo insuccesso. Solo nel 1925 Joyce, che nel frattempo si è trasferito
definitamente a Parigi, ricevutane una copia dall'amico, la fa conoscere ad
alcuni critici italianisti che, apprezzandone lo straordinario valore,
contribuiscono insieme con Montale (dopo un suo soggiorno parigino) a far scoppiare anche in Italia il “caso
Svevo”, che lo pone meritatamente al centro dell'ammirazione internazionale.
Finalmente
felice dei riconoscimenti generali, nei tre anni che gli rimangono da vivere,
Svevo pubblica parecchie sue cose minori, rimaste fino allora inedite, ed altre
vengono alla luce solo dopo il 1928, l'anno in cui Svevo perde la vita in un
incidente automobilistico. Fra queste ultime figura anche l'unico frammento
compiuto ed organico del nuovo romanzo, Il vecchione.
Durante tutta la sua esistenza Svevo fu un
lettore onnivoro ma disordinato e (a parte i suoi interessi squisitamente
letterari, fra i quali spiccano i francesi Renan, Balzac, Flaubert e Zola - da
lui considerato il maggiore scrittore contemporaneo -, gli italiani Carducci e
De Sanctis, Turgeniev e Dostoevskij, Shakespeare, Joyce e tantissimi altri)
nella sua cultura confluirono perciò filoni
filosofici e scientifici contraddittori e difficilmente conciliabili: da
un lato il Positivismo, la lezione di Darwin, il Marxismo e dall'altro il pensiero negativo ed antipositivista di
Schopenhauer, di Nietzsche e di Freud. Ma tutti questi spunti sono assimilati
da Svevo in modo originalmente coerente, assumendo da questi diversi pensatori
gli elementi critici e gli strumenti analitici piuttosto che l'ideologia
complessiva. Esemplare il caso di Freud, che Svevo considera un maestro
nell'analisi della costitutiva ambiguità dell'io e nella demistificazione delle
razionalizzazioni ideologiche con cui l'individuo giustifica la sua ricerca
inconscia del piacere. Pertanto accetta la psicoanalisi come tecnica di
conoscenza, ma la respinge come terapia
medica e come visione totalizzante della vita.
Allo stesso modo, sul piano della creazione
letteraria, dalla letteratura realista e naturalista ricava la critica degli
atteggiamenti romantici dei protagonisti dei primi suoi due romanzi, così come
l'impostazione tradizionalista della loro struttura narrativa. Ma nel primo, Una
vita (originariamente intitolato Un inetto) racconta sì la triste
vicenda di un vinto, figura tipica della storia tardoverista, ma con uno scarto
fondamentale: il protagonista, Alfonso Nitti, è un “inetto”, cioè un uomo
sconfitto, non da cause esterne, ma interiori, vale a dire da un'incapacità
generica e da una precisa volontà di rifiutare le leggi sociali e la logica
della lotta per la vita.
Parimenti
nel secondo romanzo, Senilità, il titolo ha un significato non letterale
ma metaforico, in quanto indica l'incapacità di agire tipica degli anziani, ma
che qui risulta attribuita al
protagonista Emilio Brentani, ancora relativamente giovane (35 anni),
che di fatto è incapace di vivere pienamente la sua vita e di recepire gli
stimoli e i suggerimenti vitalistici dell'amico scultore (ispirato ad un
personaggio reale, il pittore Umberto Verdula, stretto amico dell'Autore e suo
ammiratore e consolatore dopo i primi insuccessi letterari).
Ma
tra il 1898 di Senilità e il 1923 de La coscienza di Zeno non
intercorrono solo 25 anni, quanto piuttosto il rovesciamento di un mondo, a
causa della catastrofe della prima guerra mondiale e dell'affermazione di nuove
concezioni filosofiche, nonché dell'avvento delle avanguardie. E Svevo ne è ben
consapevole nel tratteggiare il suo protagonista e le sue convinzioni. A Zeno
la vicenda umana appare tragica e
insieme comica e per lui la vita è una lotta grottesca in cui l'inettitudine
non è più un destino individuale, come sembrava ad Alfonso Nitti e ad Emilio
Brentani, ma un fatto universale, non essendo la nostra coscienza altro che un
gioco comico e assurdo di autoinganni più o meno consapevoli. In forza di tali
assunti, Zeno acquista quella saggezza necessaria a vedere la vita come una
brillante commedia e a comprendere che l'unico mezzo per non lasciarsi
sopraffare da disturbi e malanni fisici, per lo più immaginari, è di
persuadersi di essere sani. Se questi ne sono i contenuti modernissimi, bisogna
aggiungere che la forma-romanzo nel senso tradizionale non c'è più. In una
sorta di diario concepito come una confessione psicoanalitica, la narrazione si
svolge in prima persona e non presenta una gerarchia nei fatti narrati e nella
loro cronologia: le epoche e i piani si dislocano e si sovrappongono,
producendo la frantumazione dell'identità del personaggio narrante. Il
protagonista infatti non è più una figura modellata su un individuo in carne e
ossa, ma è piuttosto una coscienza che si costruisce attraverso il ricordo.
Ovvero di Zeno esiste solo ciò che egli intende ricostruire attraverso la sua coscienza.
La coscienza di Zeno, appunto. E mai titolo di romanzo fu più appropriato al
progetto letterario e alla sua realizzazione da parte dell'Autore.
Svevo
è davvero vicinissimo in questa sua opera, sia pure in un modo del tutto
originale, a Pirandello, Joyce e Proust.
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