di Maria Serena
Palieri
Magda Szabó, in chiusura di intervista
a sorpresa, ridendo, ci chiede: «Sa qual era l'argomento della mia tesi di
laurea? La cura della bellezza femminile nell'età romana». E lei, signora, cosa
scoprì all'epoca? Le antiche romane, come vuole la tradizione, usavano davvero
il latte di capra? «Sì, ci si immergevano. Ma conoscevano anche altri segreti,
come i poteri del mercurio contro le rughe». Viene da pensare che qualcuna di
quelle pozioni d'epoca classica Magda Szabó l'abbia usata, nel corso dei
decenni, perché a 88 anni gli occhi verde chiaro le splendono su una liscia
epidermide color latte. C'è qualcosa di infantile, in questa grande dama della
letteratura ungherese. Qualcosa che fa capire come Magda Szabó abbia potuto
innescare la passione totale che racconta nella Porta: è il romanzo uscito in
Ungheria nel 1987 e considerato in patria il suo capolavoro, ora tradotto in
italiano per Einaudi (versione di Bruno Ventavoli, pagg. 248 euro 17). La porta
racconta la passione materna assoluta, senza limiti, ma non cieca, anzi
supremamente vigile, che una donna di servizio, Emerenc, nutrì per molti anni
per questa sua padrona. E, di converso, il sentimento con cui lei, Magda Szabó,
la ricambiò e il «tradimento» con cui, però, la ripagò alla fine. L'argomento è
spiazzante? Non che il soggetto del rapporto servo-padrone non abbia una sua
tradizione narrativa: le commedie di Plauto e di Goldoni, Felicité di Flaubert,
Le serve di Genet, o il romanzo di Robin Maugham da cui Losey e Pinter trassero
un magnifico film. Ma qui, seppure la tematica nei suoi risvolti classici
innervi il romanzo - chi è davvero il servo e chi il padrone, e sono poi due
esseri distinti o solo un Giano bifronte? - il cibo vero allestito in tavola
dall'autrice è, appunto, il dramma di una imprevedibile passione materna e
filiale. D'altronde tutto appare verosimile in queste stanze della romana
Accademia d'Ungheria dove ci incontriamo: si aggirano degli addetti che
sembrano usciti da una saga di Peter Esterhazy, uomini altissimi e grassi con
lunghe zazzere, uno sorride, l'altro s'addormenta, d'emblée, su una poltrona.
Magda Szabó, nata nel 1917 da un padre protestante e una madre cattolica nella
città, Debrecen, che ospita la comunità calvinista più folta d'Ungheria, di
famiglia altoborghese, laureata in lettere classiche, sposata a un collega, si
affaccia, con successo immediato di critica, alla platea ungherese dopo la
guerra, per ritrarsi poi dal ‘48 per difficoltà politiche per un decennio. Poi
arriva il ‘56. E poi gli anni della relativa liberalizzazione. Le porte le si
riaprono: in vent'anni viene insignita dei due maggiori riconoscimenti
nazionali, nel ‘59 del premio Attila Jozsef e nel ‘78 del Lajos Kossuth. Scrive
una sequela di romanzi, ma anche libri per ragazzi e sceneggiature. Negli Usa
le assegnano il premio Betz Corporation, in Francia il Fémina. Da noi segue il
destino di tutti gli ungheresi che, dopo l'inondazione di romanzi degli anni
Trenta e Quaranta, per potersi riaffacciare devono aspettare che il Nobel premi
Imre Kertesz e che Adelphi crei il caso Marai. Prima della Porta, infatti, un
solo titolo di Magda Szabó era apparso nelle nostre librerie, ma senza seguito,
a metà anni Sessanta L'altra Ester pubblicato da Feltrinelli. Ora, arrivano col
romanzo due storie destinate agli adolescenti, Abigail e La fata Lala (le
pubblica L'Anfora). Dunque, La porta ci regala un personaggio enorme: Emerenc,
la donna che ha vissuto ogni tragedia, come Madre Coraggio s'è vista morire
sotto gli occhi, carbonizzati da un fulmine, i due fratellini gemelli e, subito
dopo, ha visto sua madre suicidarsi buttandosi in un pozzo, ha amato un uomo che
è dovuto andare in esilio, ha provato a scacciare il chiodo con un altro uomo
che le ha rubato tutti i soldi, ha trovato l'unico amore che le rimaneva, un
gatto, strangolato col fil di ferro da un vicino. Ed Emerenc con tutto questo è
cresciuta fino a diventare una donna dalla forza mitologica: durante la guerra
ha salvato chiunque le capitasse, ebrei e partigiani, russi ma anche Ss, ora
spazza la neve per tutti nella piazzetta di Pest dove fa la portinaia, cucina
per chi si ammala e, quando entra nella vita dei suoi nuovi padroni, Magda e il
marito, la prende in mano e diventa la vera sovrana della lora casa. Più che
sovrana: una divinità silente e benigna. Che ha un rapporto da pari a pari,
telepatico, col cane di quella casa, Viola. Che, solo quando vuole, racconta a
stralci qualche fatto della sua incredibile vita. Più spesso apre bocca per
riversare contumelie su qualunque autorità, dai politici alla Chiesa. O
appassionate arringhe su quella padrona che fa un lavoro - scrivere - che non
le appare tale, e che strapazza, in nome di un suo codice morale, eccentrico in
apparenza, ma d'una logica adamantina. Emerenc che la sera si rinserra nella
sua casa di portinaia che non apre a nessuno e i cui segreti (la sua famiglia
di animali, un misterioso tesoro in mobili legato alla Shoah) mostrerà una
volta solo a quella scrittrice che ama. Davvero dobbiamo credere che sia
esistito un destino tragico come quello di Emerenc e che un essere umano gli
sia sopravvissuto? «Sì, ogni fatto che racconto è davvero accaduto. Ho dovuto
solo scegliere, tra i tanti, quali narrare. E ho dovuto inventare una struttura
che reggesse il romanzo» spiega Magda Szabo. «La difficoltà più grave era nel
fatto che la vita di Emerenc era, di per sé, una tragedia greca. Magari quelli
che racconto fossero frutti d'invenzione! Proprio per questo, credo, Emerenc
era diventata una donna che amava poche persone, ma che, per chi amava, poteva
anche morire. Da quando è uscito il libro molti mi chiedono dove sia la sua
tomba, per visitarla. Io rispondo che quando morirò porterò Emerenc con me e
mio marito, nella nostra cripta. Perché è stato come se io fossi dilaniata tra
due bisogni d'amore, quello di mio marito e il suo. Il dramma è che le nostre
vite erano asimmetriche, io avevo uno sposo e la carriera, lei solo me». In un
certo senso, questo oltreché il romanzo di una passione è anche un romanzo di
idee: Emerenc sa cosa pensare su tutto, dal lavoro alla politica ai preti.
«Odiava gli intellettuali. Non capiva cosa io amassi in mio marito e viceversa.
Diceva che gli unici lavori veri sono quelli manuali. Se io cercavo un'idea
fissando il cielo oltre la finestra mi diceva "ma cosa fa? perde
tempo?". Era intelligentissima e conosceva una quantità sorprendente di
parole ricercate che aveva imparato dai molti per cui aveva lavorato. Però
aveva fatto solo la terza elementare e, quando arrivò il comunismo, rifiutò ciò
che le offrivano, cioè di emanciparsi, studiando, dalla sua condizione. Il
retroscena era l'amore per quell'uomo che aveva salvato in tempo di guerra, era
un dissidente noto, un intellettuale dello stesso gruppo di Imre Nagy. Quando
tornò dall'esilio lei sperò che la sposasse, invece lui arrivò con una moglie.
Così, quando lui morì, ai suoi funerali c'erano tutti, tranne lei, perché non
poteva sopportare quella vergogna». E la vergogna, sentimento delle creature
meno artefatte e più sincere, ha un ruolo chiave, poi, nella fine drammatica di
questa donna. Signora Szabó, la sua Emerenc ha in spregio qualunque autorità,
ubbidisce solo a se stessa. Questo ci deve dire qualcosa, in modo traslato, sul
suo personale rapporto col comunismo? «Certo non è stato facile vivere in
Ungheria in quegli anni essendo figlia di un altissimo funzionario del governo
precedente, da aristocratica in un mondo socialista. Ma io volevo scrivere,
qui, solo di una signora anziana alla quale volevo bene. Una donna che mi ha
fatto capire che sbagliavo a credere che i miti fossero finiti con il
Cristianesimo, perché era, lei, una figura quasi mitologica. Lascio che sia lei
a parlare. E sì, lei non sa cosa fosse in grado di dire, Emerenc, sul
comunismo. Ma c'è una domanda che lei non mi ha ancora fatto». Quale? «Perché
ho deciso di scrivere questo libro. Quand'è uscito in molti mi chiedevano
"ma perché l'hai fatto? Ora che hai recuperato un buon rapporto col tuo
paese ti metti in piazza, sveli le tue mancanze?" L'ho fatto per espiare.
Come racconto, mentre Emerenc era malata e mentre si avviava alla morte io ero
in televisione a farmi bella, ero in Parlamento a farmi festeggiare, ad Atene
al congresso di scrittori. Anche se ero fuori di me, mi addormentavo invece di
parlare, non mangiavo. Questo libro è una confessione pubblica per il peccato
che ho commesso».
14 April 2005 pubblicato nell'edizione Nazionale (pagina 23) dell' Unità nella sezione
"Cultura"
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